Il vino, e mi vergogno quasi a scriverlo in un paese di degustatori, è il frutto della spremitura dell’uva. Questo succo denso, dolce e appiccicaticcio si chiama mosto. Dopo la fermentazione diventa vino.
I vini rossi si ricavano dall’uva nera lasciando nel mosto anche le vinacce (bucce, vinaccioli e raspi).
Il vino bianco, volendo, si può fare anche con uva nera, ma togliendo le vinacce subito dopo la spremitura. Sarebbe corretto però, che il vino bianco ottenuto da uva nera venisse dichiarato in etichetta.
I vini rosati non sono ottenuti, come molti pensano, mescolando vino bianco e rosso ma lasciando le vinacce nel mosto solo per il tempo necessario a ottenere l’intensità di colore desiderata.
Messo entro grandi tini di acciaio o plastica il mosto inizia a fermentare: i lieviti, microorganismi che sono nelle bucce, provocano una serie di reazioni chimiche per cui gli zuccheri contenuti nel mosto si trasformano in alcol etilico, anidride carbonica e vari prodotti secondari. Alla fine della fermentazione il liquido si è trasformato in vino.
Quindi si decanta, si filtra, si chiarifica (in quest’ultima fase si possono aggiungere stabilizzanti di tipo diverso, come solfiti o anidride solforosa). A questo punto il vino è pronto per essere invecchiato.
Il vino fresco
Diciamo subito che la maggior parte dei vini in commercio (il 90%) vanno bevuti giovani, cioè entro l’anno. Generalmente i rossi più stabili, durano più dei bianchi, ma non migliorando nella qualità.
Ci sono anche vini che acquistano pregio con l’età, per esempio la produzione di vitigni celebri come il Barolo o il Brunello. In questo caso, maturando, i vini cambiano colore e sapore, perdendo gli aromi tipici dei vini giovani, come il fruttato e il floreale, che si evolvono in aromi secondari più strutturati.
Le classificazioni più comuni
Vino da tavola. È il termine più ampio, con cui si indica il vino destinato al consumo (e non alla distillazione, per esempio) e sotto la cui classificazione si trovano spesso vini di ottima qualità. Deve corrispondere ai requisiti di legge.
Vino doc o di «denominazione di origine controllata». È una sigla che dovrebbe caratterizzare un vino migliore di quello da tavola, il che non è sempre vero. I doc riconosciuti dovrebbero essere prodotti seguendo apposite prescrizioni contenute nei «disciplinari» che definiscono le uve, la zona, la resa, a volte la bottiglia oltre che determinate caratteristiche fisiche e chimiche. Ma il controllo esercitato attualmente nella produzione vinicola non dà garanzie.
Vino doc a «denominazione di origine controllata e garantita». Questa classificazione è riservata a vini pregiati. Le norme di produzione sono più rigorose e severe, si deve dichiarare l’anno della vendemmia e la prova di degustazione è ripetuta partita per partita prima dell’imbottigliamento. Vale comunque sempre lo stesso discorso del doc: il consumatore non ha nessuna garanzia di qualità, che dipende dalla severità del disciplinare.
Tappo di sughero o a vite. Vetro o cartone
Il vino «vero» va imbottigliato in bottiglie di vetro spesso e scuro e con il tappo di sughero, che permette al vino di «respirare» ed è più adatto a una sostanza ancora «viva» e in evoluzione come il vino.
Il vino di qualità infima è quello venduto in tetrabrick e che viene pastorizzato, senza dichiararlo in etichetta, per renderlo più stabile bloccando ogni possibile degradazione.
I vantaggi di questo sono solo economici (costa poco, ma il «consumatore intelligente» preferisce la qualità alla quantità) data la maggiore praticità di trasporto e di stivaggio. Il risultato è un vino scadente non adatto nemmeno per la cucina.
Le etichette: povere di spirito
Tutte le etichette o comunque la maggior parte, sono carenti di alcune informazioni importanti che dovrebbero essere obbligatorie per legge.
-Nome e indirizzo del produttore del vino (se fatto con uva propria) e non solo quello dell’imbottigliatore che non è per nulla fondamentale. Uve, mosti e vini maturati a metà viaggiano infatti da una parte all’altra dell’Italia (e dell’estero) e il consumatore non ha modo di saperlo.
-Località geografica di produzione delle uve e anno di vendemmia (la qualità dipende molto dal clima, dalla zona, dal metodo di produzione, dallo stato delle uve). Sapere l’anno della vendemmia e non solo quello dell’imbottigliamento, farebbe capire quanto è durato «il viaggio» e la permanenza nei tini, e il conseguente eventuale pericolo di presenza di conservanti, inevitabili per i lunghi periodi.
-Contenuto zuccherino (basterebbe segnalare se si tratta di vino secco, amabile, dolce) che potrebbe essere utile per esempio per i diabetici.
-Se sono stati usati additivi e conservanti (anidride solforosa o bisolfito).
-Se il vino è stato pastorizzato.
Cosa offre il mercato
Anticipando subito che è impossibile bere un vino discreto spendendo poco, il mercato italiano offre ai consumatori (escludendo le cantine sicure, gli amici, i produttori conoscenti che garantiscono quello che vendono) un vino decente, non eccellente, ma dal prezzo medio accettabile. Valutando il rapporto qualità prezzo non prendiamo in considerazione i vini in cartone, ma nemmeno quelli che sugli scaffali del supermercato sono carissimi.
Componenti naturali
Come si è detto prima l’aroma, il sapore, la consistenza e l’aspetto che formano la qualità di un vino dipendono da molti fattori: le uve, la zona di produzione del vitigno, il clima, il terreno, i metodi di produzione.
Per una prova da tecnici si dovrebbe allora misurare l’estratto netto ridotto e le ceneri. Come si calcola: si riscalda facendo evaporare tutto il liquido e si vedono quante ceneri dà l’estratto netto. Serve per capire la ricchezza delle materie prime. Se le ceneri sono poche si può sospettare che sia stata aggiunta acqua. Il magnesio è indice della genuinità del vino. Se il valore è troppo diverso da 80 mg/1 si può sospettare annacquamento o aggiunta di saccarosio. Acidità volatile: fa riconoscere lo stato di conservazione del vino (se inacidito vuol dire che è stato mal conservato). Cloruri, solfati, sodio: valori troppo alti di queste sostanze possono far sospettare la presenza di sofisticazioni. Metanolo. Anche se pericolo, questo alcol velenoso è naturalmente presente in piccolissime dosi in ogni vino. Più è alto il valore e peggiore il giudizio attribuibile. Anidride solforosa: è un conservante. La legge ne consente una quantità massima di 160 mg/l, da considerare troppo elevata, dato che è presente in moltissime altre sostanze (succhi di frutta, sottaceti, marmellate…) e che la somma giornaliera potrebbe salire molto. Metalli pesanti, cioè rame, zinco e piombo. I primi due possono essere residui di trattamenti anticrittogamici a cui viene sottoposta la vite: il piombo deriva invece dai macchinari (filtri, pompe e valvole) utilizzati nella produzione o da uve coltivate vicino a un’autostrada.
Ampeloterapia o più comunemente «cura dell’uva»
Consiste nel mangiare per almeno tre settimane da uno a tre chili d’uva. I vantaggi. L’uva è ricca di vitamine, potassio, calcio e magnesio, ma non di sodio e di cloro. Non ci sono inconvenienti e siccome l’uva da tavola fornisce anche molta energia è particolarmente indicata per le diete a basso contenuto di sale.
Composizione chimica di un acino di uva
L’acino dell’uva è costituito da tre parti: seme 4%, buccia 10% e polpa 80%.
Nel seme è presente un olio particolarmente adatto all’alimentazione umana per la sua composizione di acidi grassi polinsaturi, che hanno un’azione anticolesterolizzante.
Industrialmente si ottiene (con procedimenti non sempre «puliti») l’olio di vinaccioli.
Nella buccia ci sono invece i composti fenolici, in particolare i pigmenti rossi, (antocianine) nell’uva rossa e i tannini che sembrerebbero avere un’azione antivirale e antibatterica.
La polpa è quella che ha maggior valore. Il mosto dell’uva infatti è costituito da acqua 65-85%, glucidi 11-35%, acidi organici 2-20%, pectine 3-10%. Naturalmente questi valori mutano per la varietà dell’uva, del terreno dove è coltivata, del clima e del grado di maturazione.
I glucidi più presenti sono glucosio e fruttosio in quantità variabile tra 150 e 260 grammi per litro. La concentrazione di «zuccheri» è nell’uva superiore a qualsiasi altro tipo di frutta. Pere, mele, albicocche, arance arrivano fino al 7-14%. Solo le banane si avvicinano alla percentuale dell’uva.
Proprietà naturali
La cura dell’uva consente di sfruttare queste proprietà. Per una cura efficace bisogna alimentarsi nell’arco della giornata con una quantità che vada da uno a tre chili per un periodo minimo di tre settimane.
Con la perseveranza le proprietà dell’uva si sfruttano al meglio: diuretica, lassativa, elimina l’acido urico, provoca l’ipersecrezione biliare svuotando la vescichetta (indicata per i dispeptici, gli stitici, i gottosi, i litiasici biliari e urinari, gli artritici). Per le sue proprietà il succo d’uva è considerato una specie di «latte vegetale» e gonato al latte di donna. Gli zuccheri dell’uva, da non confondere con il saccarosio di produzione industriale e la cui trasformazione esige l’intervento del fegato, sono direttamente assimilabili e secondo alcun